Il Professor Nazzaro Benati ha concluso nel 2014 una ricerca sulla sua famiglia che visse e prosperò intorno al mulino di Caprì, che si trova, oggi in rovina, sul Naviglio all’Osteriola, tra Rio Saliceto e Campagnola.
Pur essendo una pubblicazione rivolta esclusivamente alla famiglia, è una ricerca di storia locale, supportata da numerosi documenti, carte e mappe: parte dalla nascita del mulino, ad opera di Manfredo da Correggio e del Duca Borso d’Este nel 1462, e si conclude nel l972, quando il mulino venne dismesso. Al momento della sua costruzione, l’Osteriola faceva parte del territorio di Correggio e utilizzava l’acqua del Naviglio.
Il servizio di molitura aveva un costo chiamato nei secoli “la tassa sul macinato”: il privato che andava a macinare il proprio grano o mais pagava il mugnaio che, a sua volta, doveva versare la tassa allo Stato, così salata da essere considerata la più odiosa.
La ricerca di Benati, interessante e dettagliata, non poteva restituire il calore della vita intorno al mulino. Così, il compianto Giulio Taparelli e la sottoscritta fummo chiamati ad illustrare e romanzare la storia del mulino. Decidemmo di attenerci alla ricerca abbastanza fedelmente, ma un’invenzione ce la concedemmo: la leggenda di un mulino galleggiante che macinava esentasse.
L’inaugurazione
Il mugnaio è teso e nervoso: tutto è pronto, si dovranno solo collegare gli ingranaggi alla ruota; già da giorni, da tutta la zona è arrivata gente per assistere alla cerimonia d’inaugurazione, povera gente ignorante che spera che queste diavolerie tecniche possano portare un futuro migliore, che la miseria, sorella della malattia e della morte, allenti la morsa.
Da Correggio è in arrivo il corteo di preti, soldati e dignitari, che accompagna Manfredo, il signore, artefice insieme a Borso d’Este di questa meraviglia.
Già, ci vuole qualcuno che comandi per deviare il corso dei fiumi e portare i canali dove vogliono loro, per fare andare le ruote dei loro mulini.
Tuttavia, il mulino non era solo una proprietà, un gingillo di alcuni potenti, era un servizio alla comunità, e quei poveri disgraziati che hanno dormito in campagna questa notte aspettano di vedere all’opera il nuovo portento.
Si alzano tutti, una massa grigia e marrone, per assieparsi ai lati del corteo: in testa, su una portantina con baldacchino dorato, c’è un vescovo grasso con abiti rossi sgargianti e gioielli di esagerate dimensioni, dietro, vari ecclesiastici, fino al parroco nella sua tonaca consunta.
A una certa distanza, cavalieri in velluti verdi e arancio con armature leggere precedono il Signore in un abito celeste e oro. Severo e accigliato, si dirige con ambio deciso alla piccola chiesetta: entrano gli ecclesiastici; il popolo, in ginocchio e a capo chino, si sistema all’esterno. Dall’interno della bella maestà escono inni ben modulati, ai quali si unisce la folla.
È tempo di andare al mulino per la benedizione. Una lunga fila segue cantando i preti con gli aspersori.
Tutto sudato, imbarazzato ma pronto all’azione, il mugnaio accoglie con goffa deferenza questi gran signori e fa luogo a Manfredo fino a una leva di un legno rossiccio con bella impugnatura laccata. Giù! Gli ingranaggi, nuovi e unti a dovere, si incastrano, piacevolmente silenziosi, e trasformano la forza dell’acqua che va verso la bassa, in vari moti rotatori orizzontali di macine e mole, o moti verticali, con magli di potenza erculea, che vanno su e giù come mazze di tamburi a una festa grande.
Manfredo distende la fronte, risale a cavallo e lascia tutta quella marmaglia al lavoro. La festa è finita. Quel mugnaio restò a bocca aperta, per la velocità con la quale tutto si era svolto, e pensare che non aveva dormito per un mese per quei pochi secondi di gloria.
Ad ogni buon conto, quello era un gran mulino e lui sapeva fare il suo mestiere.
Il Signore non poteva chiedere di meglio.
Due secoli dopo.
La gente dice che ci sono degli zingari che rubano il lavoro ai mulini. Infatti si è sentito parlare di un’imbarcazione fantasma che passa ogni tanto, in giorni e luoghi stabiliti con accordi segreti, e che macina “a domicilio”: un mulino galleggiante fuorilegge.
Quando si sente arrivare il battello in lontananza, la gente che abita lungo il Naviglio corre a vedere, soprattutto i maschi, come tanti coglioni, la bella mora adriatica che, quando attracca, si solleva due pinzi delle tante sottane colorate e le ferma in vita, per manovrare più agevolmente. Appaiono due gambe lunghe e brune, ma subito dopo esce anche lo zingaro.
Nei racconti della gente, lo zingaro è gigantesco e la ragazza una ninfa. Dicono che sono senza nome e vengono dal delta del Po, dove vagano come pirati.
Sbirri e finanzieri li braccano, ma loro sono creature del fiume; dicono che non si fermano mai, solo il tempo per macinare, senza far pagare le tasse alla povera gente, le misere quantità di granaglie degli abitanti che vivono lungo le rive.
Chissà chi ha costruito quel battello: una piccola ruota, azionata dall’acqua, fa girare una mola in miniatura. È collegato alla riva da una passerella pronta ad abbassarsi e alzarsi velocemente, a seconda delle necessità. Apparizione fugace e benedetta.
Da “Il mulino di Caprì tra cronaca e leggenda”