Cantico degli scogli

Ventimiglia: il fronte inesistente dove l’Europa si infrange

Nella tradizione letteraria cristiana sono spesso i “Canti” a spostare il dialogo con Dio sul piano della poesia (uno di questi -forse il più celebre- è il “Magnificat”). 

La “giornata cristiana”, scandita dalla preghiera, si conclude con la Compieta, nell’ora tra il sonno e la veglia.
L’ultimo passaggio della Compieta -in pratica le ultime parole da dedicare al giorno che sta tramontando – sono affidate al “Canto di Simeone”, il “Nunc dimittis”, nella sua versione dall’incipit latino.

Simeone era un vecchio ebreo, cui era stato profetizzato che non sarebbe morto fintanto che non avesse visto il Messia.
Per questa ragione, nel momento in cui partecipa alla presentazione di Gesù al Tempio, sente che il suo momento è finalmente giunto e ringrazia con le parole del Canto che porta il suo nome.

Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola.

Inizia in questo modo, Simeone. Ci sono due verbi, nel primo verso del suo canto, “lasciare” e “andare”.

Sugli scogli di Ventimiglia, che solo per pochi metri non sono gli “scogli di Nizza” –pochi metri che fanno la differenza, interrotti dalla linea di confine della dogana di Ponte San Lodovico- siamo venuti a vedere con i nostri occhi quanta pena possa correre per una questione di centimetri. 

Le persone che da oltre dieci giorni sono accampate soffocano due grida: “lasciateci” e “andare”. 

Non c’è rabbia, nella loro invocazione. Non ne hanno più. Reclamano semmai “dignità”. E pace.

«Lasciateci andare in pace».

Perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli.

Sugli scogli sono 50-70 persone al massimo. Vengono in gran parte dal Sud Sudan o dall’Eritrea. Vedono la “salvezza” a portata di mano, preparata davanti a loro occhi. La vedono al di là del doppio cordone di poliziotti e gendarmi che sorvegliano il confine che monsieur Hollande ha blindato, facendo perdere la faccia a sé stesso e all’intera Europa.

50 persone sugli scogli non sono “un’emergenza umanitaria”, come ce la stanno raccontando alcuni. Tanto meno “un’invasione”, come speculano altri. 50 persone sugli scogli rappresentano semmai la certificazione del fallimento e dell’assenza della politica, questa sì in stato “emergenziale”.

Gli scogli sono il “non-luogo” ideale per una location di una vicenda dai tratti surreali, che si svolge in un lembo di terra che è anche mare, di mare che è anche montagna, di Italia che è anche Francia. Di tempo che diventa “attesa”. 

Da sempre, gli scogli sono ciò che separa ciò che siamo da ciò che temiamo -l’ignoto, il mare in burrasca, le onde-: a Ventimiglia -anzi, per la precisione a Latte di Ventimiglia: Latte, la toponomastica italiana molto spesso sa essere beffarda- sugli scogli ci sono uomini che attendono il permesso di essere considerati tali.

«La vuoi sapere la cosa buffa?», dice Stephan, uno di loro. «Che poi a me, per esempio, non frega un cazzo dell’Italia o della Francia. Noi vogliamo andare in Germania, in Svezia, in Norvegia, al limite in Inghilterra».

«Io in Olanda», aggiunge il suo amico, senza nome. Fuma. «Io vengo dall’Olanda, la mia famiglia sta là. Sono venuto qui perché volevo aiutare mio fratello a passare. Sono arrivato da uomo e, trovandomi poi da questa parte, sono finito sugli scogli. Dove sta la giustizia. Dov’è l’umanità?».

Ci interrompe Saib, l’eritreo che raccoglie i rifiuti in un sacco nero e, tiene a precisare, «facciamo la differenziata». 

Vicino a lui c’è chi prega, chi legge, chi prova a riposarsi sotto tende improvvisate, chi lava i propri vestiti in mare, chi si fa i capelli da“Al” (lo chiamano così, ma dev’essere l’abbreviazione di un nome più lungo). Anche Al è sudanese: «Sono arrivato qui per mare», dice (ed è uno dei pochi, molti hanno usato il treno). «Al mio paese tagliavo i capelli. Spero di poterlo fare anche in Svezia, dove vorrei andare. Il rasoio è sempre quello, no?».

Luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo, Israele.

Nel frattempo, in stazione a Ventimiglia hanno tolto tutte le porte.

«Hanno il terrore di essere chiusi dentro», spiega un volontario della Croce Rossa.

In stazione i migranti sono di più, accampati nella sala d’attesa, nei corridoi, sotto la pensilina e le aiuole dell’ingresso. Caritas, Unicef, Croce Rossa civile e Croce Rossa militare, Terre des Hommes e volontari di altre associazioni, stanno cercando di mediare per convincerli a spostarsi in un edificio rosa lì a fianco, un vecchio dopolavoro ferroviario, rimesso in sesto e ritinteggiato a tempo di record, durante la notte. Hanno rifatto i bagni, stanno portando brande e posti letto. In stazione ci sono le famiglie, donne, molti bambini.

«Se riusciamo a convincerli a venire qui, saremo anche in grado di curarli e assisterli meglio. Finalmente un gruppo di loro si è convinto, si è spostato dalla stazione ed è venuto qui. Il primo è stato un uomo che ci ha portato la sua famiglia. 

Sua moglie sta per partorire».

Ci affacciamo nello stanzone comune, attiguo. Ci sono lenzuola intorno a un letto e un andirivieni più concitato. Lì dietro, dietro a quei lenzuoli usati come divisorie, sta per nascere nuova “luce”.

Non sappiamo se quel bambino “illuminerà le genti”. Di certo illuminerà i volti dei suoi genitori.

Ma è vita. E la vita è tutto ciò che basta per tracciare un futuro possibile e per attendere, dopo la notte, un nuovo giorno. 

Come infatti, meglio di molti altri, seppe dire il vecchio Simeone. 

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