In tempi tanto turbolenti, mi è venuta voglia di parlarvi di uno sport dominato da calma, silenzio, ragionamento e movimenti controllati: il biliardo a stecca con 5 birilli. A Correggio era un gioco socializzante, con numerosi spettatori assiepati nei caffè come il Tubino, il Commercio, il Mazzini, o le bocciofile Olimpia e Vicentini. Anzi, un locale veniva giudicato di infimo ordine qualora sprovvisto del tavolo da gioco. Immersi in nuvole di fumo, sembrava di stare dentro a un film (come la sfida tra Paul Newman “Lo Spaccone” e il vecchio Minnesota Fats), dove gli spettatori suggerivano colpi dai termini tecnici appresi nei rari filmati di campioni, come i leggendari Cifalà, Lotti (lo “Scuro” del film di Nuti) e Gomez l’argentino. Tiri con nomi affascinanti, quasi esotici: sfacci, raddrizzi, garuffe, erzegovine o marescialle, bricolle, armi del mestiere per disegnare geometrie con stecca e palla.
Giocatori appassionati erano il sindaco Claudio Ferrari, il ristoratore Barbieri, il geometra Pinotti e il termotecnico Masoni, che assieme a me avevano fondato un mini club alle ex scuole elementari di Lemizzone con biliardi Mari, le Ferrari dei biliardi degli anni 80.
Sfide infinite seguite dal maestro Magni di Carpi, per limitare al minimo il rischio di danni al tappeto verde, sempre in agguato fra giocatori improvvisati che vogliono imitare i colpi funambolici dei campioni come ad esempio il “Massè”, tiro difficilissimo dall’alto verso il basso, esempio di virtuosismo assoluto per esibire la propria abilità e…via di buco nel panno e nomea di schiava assoluta.
Adesso si gioca in ambienti ovattati, climatizzati, luci solo sul biliardo, nella quasi completa assenza di spettatori. A volte il rito viene filmato dalla televisione, interessata solo ai campioni, mentre nel resto dell’universo i praticanti sono in drammatico calo e le sale da biliardo ormai una rarità. Ai giovani questo sport non piace, non è nelle loro “corde”, troppo tempo per impararne le tecniche, troppi calcoli da fare, poco istinto, molta concentrazione. Peccato! Quello che non riescono ad apprezzare è proprio l’essenza del gioco, la sacralità del gesto, l’impatto del “cuoietto” con la biglia, il rumore del contatto della biglia con la sponda (quell’inimitabile “stumpff” che ricorda il battito ansioso del cuore del giocatore) e la signorile noncuranza sia in caso di riuscita che di fallimento del tiro. Non vi sembra di risentire Gaber che canta “Per fortuna che c’è il Riccardo che da solo gioca a biliardo”?
Esistono tanti tipi di sport del biliardo, con e senza buche, con biglie numerate o colorate, ma tutte hanno un denominatore comune: la geometria. Diceva Newton: “se volete capire l’universo giocate a biliardo”. Solitamente la lunghezza del tavolo è il doppio della larghezza, 284×142 l’ideale ma piccole variazioni sono tollerate, mentre la stecca può essere di legno, di carbonio, di kevlar e via verso materiali tecnicamente sempre più avanzati. Ogni giocatore che si rispetti ne ha una personale adatta al suo modo di giocare, di peso, bilanciamento, impugnatura e segmentazione (da uno a tre pezzi) personalizzati. Il biliardo non è solo un gioco, è un modo di pensare, è un atteggiamento nei confronti dell’avversario (mai nemico), è un modo per saggiare i propri limiti di concentrazione. Scrittori e filosofi hanno descritto il biliardo come una metafora: le palle siamo noi che rotoliamo, ci sfioriamo, incocciamo, prendiamo colpi nel didietro, sbattiamo la faccia contro un muro, tutto per buttare giù i birilli, soprattutto quello rosso perché vale di più. Sembra sia tutto facile, sotto controllo; sembra che le biglie vadano (che noi andiamo) dove vogliamo noi, e invece basta un millimetro in meno o in più per vincere o perdere. Parola di Gino&Michele.