Settantotto anni nascosti in un corpo roccioso e due mani che ti avvolgono. Troviamo Amedeo Zini, noto appunto come Manòun, occupato a potare da solo nel suo sterminato vigneto, cinquecento metri in linea d’aria dalla chiesa di san Biagio. Dal carro, che ha dotato di una rudimentale filodiffusione, ci racconta alcune delle sue molte vite. Siamo qui per questo, e del resto Manòun non è uno che si fa pregare.
Primo: il suo amore da ragazzo, erano gli anni Cinquanta, per il ciclismo competitivo. Non c’è granché da segnalare, se non l’abitudine alla fatica riscattata dal «mezzo di trasporto più bello del mondo: non fa casino e ti lascia guardare». Di allora gli restano amici sparsi per l’Europa che ogni tanto vengono a trovarlo, e lui li accoglie nei campi, che sono il suo massimo divertimento.
Secondo: motociclismo. Abituato a scorrazzare, negli anni Settanta si inventa campione di sidecar. Comincia tutto da un vecchio residuato dell’esercito tedesco, un sidecar BMW r75, su cui Amedeo caricava fino a sei-sette amici per andare alle osterie fuori Correggio. «Sette passeggeri?» chiediamo stupiti. «Beh, al posto della mitragliatrice» spiega lui. Comincia a gareggiare con questo mezzo, dopo averlo sistemato e potenziato, ingaggiando, a fare evoluzioni sul carrozzino laterale, uno spericolato genovese, Fornaro. Trova anche lo sponsor nel vecchio Lombardini. Va in giro per l’Europa a comprare pezzi, e, d’inverno, li assembla nella sua stalla con un gruppo di amici: un motore tedesco Koenig per motoscafi da corsa innestato su un telaio inglese. «Ma come facevi?» «Mi arrangiavo un po’» risponde.
Così è campione nazionale per quattro anni. Partecipa più volte al mondiale, dove dominano svizzeri, inglesi e tedeschi; fino a piazzarsi 9°, che rimane il miglior risultato di un italiano. Porta in giro per i gran premi di tutta Europa il suo sidecar con un furgone-roulotte di propria concezione. Poi, all’inizio degli anni Ottanta, la specialità del sidecar prende una strada che finirà per affossarla: potenze sempre più elevate, carenature integrali, costi altissimi; e sempre meno differenze con le moto da gran premio. Fine della storia. Anche di allora gli restano amici che vengono ogni tanto a far baldoria.
Terzo: i viaggi in bicicletta negli anni Ottanta assieme all’amico Rolando Bulgarelli, di Gazzata («Lui era il teorico e il fotografo»). Ma non viaggi da turisti qualsiasi, viaggi che per farli deve trovare degli sponsor in Atala e Benotto, e che vengono raccontati da un giornalista del periodico La Bicicletta e da diverse radio e tv locali. I due cominciano con la valle del Nilo, in bici dalle piramidi fino ad Assuan, con tendino al seguito. Alla fine del viaggio avranno consumato dieci palmer. Lì scoprono l’ostilità dei beduini: «Ander in mesa ai puvrèt l’era un problèma».
L’anno dopo affrontano la cordigliera delle Ande con biciclette più adatte, modificate da Zini: 70 chili di peso a carico completo. Saranno 8000 km e 4 mesi. Da Lima pedalano fino a Cuzco, vanno in treno a Machu Picchu ma gli ultimi chilometri vogliono farli in bicicletta. Attraversano i territori controllati da Sendero Luminoso («Gente normale, se non fosse che ognuno portava le sue armi»), scalano un passo a 4900 metri e arrivano fino al lago Titicaca. Sono ospitati da un funzionario dell’ambasciata americana di La Paz. Da lì attraversano il confine con il basso Paraguay e pedalano fino alle spettacolari cascate dell’Yguazù che segnano il confine tra Argentina e Brasile. Seguendo la strada dell’Eldorado penetrano in Argentina per fare visita ad una famiglia di Prato emigrata a Buenos Aires. Poi proseguono verso sud. Finché, davanti ad un cartello Terra del Fuego 7000 km Bulgarelli dice: «Può anche bastare» e voltano le biciclette. Nel ritorno entrano in Uruguay. Qui cercano una famiglia di emigrati correggesi: «Davoli e Fantuzzi; li trovammo con molta fatica in una baracca sperduta nella pampa della penisola di Valdès, che coltivavano una enorme estensione a cavoli, solo cavoli; comunque l’anno dopo le cavallette si portarono via tutto».
Non possiamo fare a meno di osservare: «Pensa: dov’è passato Chatwin, lui viaggiava più comodo». «Mai incontrato» dice Manòun.
Il successivo viaggio in bicicletta è di tre mesi in Venezuela. Affrontano l’Amazzonia venezuelana, vengono sequestrati dalle piogge («Andare in bicicletta nel fango non è un bell’andare»), arrivano allo straordinario salto del Angel, poi percorrono uno sterminato altopiano. «Il posto più bello del mondo, una natura lussureggiante. Non incontravi nessuno per giorni e giorni, per centinaia di chilometri; per cibo avevi solo dello yogurt». E da qui passano in Brasile dove l’Amazzonia comincia a venire brutalmente disboscata. Attraversano il Mato Grosso, pedalano per migliaia di chilometri e arrivano fino sulla costa a Belèm. Per ritornare risalgono il Rio delle Amazzoni in barca.
«Sulle strade che il Che girava in moto!» diciamo noi. Risponde: «No, mi dispiace, non abbiamo visto neanche lui».
Il viaggio più bello è attraverso Camerun, Congo, Uganda e Kenia. In Centro Africa vanno a trovare frate Franco dei missionari di san Martino. Poca sicurezza («Tenevo un machete avvolto nell’asciugamano, perché sa go da gnir masè a g’voi esser anca me!»), eppure ogni villaggio in cui arrivano, pedalando attraverso sentieri o al massimo su strade piene di buche, fa loro una festa inimmaginabile. Una lezione di umanità. «Vi allenavate molto per sopportare queste fatiche?» «Le affrontavamo così, come veniva. Eravamo più giovani».
Vogliono andare in Cina, ma scoprono che se fai campeggio libero ti mettono in galera. Allora scelgono l’Australia, percorrono tutta la costiera da Brisbane a Darwin e poi, sempre in bicicletta, penetrano all’interno tra sbalzi termici da cavare la pelle, animali mai visti, terre di ogni colore e miniere di ogni tipo fino all’Ayers Rock.
Siamo colpiti: «Ancora un viaggio di Chatwin!» «Questo qui che dite voi proprio non lo conosco» ribadisce Manòun, e il suo tono è conclusivo. Inutile spiegargli che lo scrittore inglese negli stessi anni percorreva le stesse strade e i suoi reportage, annotati sulle mitiche moleskine, restano tra i grandi classici del Novecento.
Nonostante il sole il freddo è pungente (per noi, ovviamente), così non affrontiamo le successive vite di Manòun. Per esempio, mise su famiglia: Amedeo ha una moglie molto più giovane di lui, Brunella, con cui ha coltivato due figli. «Ma non si può cuntèr così su due piedi. Vi ho dato solo un assaggio dei miei viaggi, la crosta. Per gustarne la polpa dovete fare un salto da noi, a sfetlèr un salam e sturèr dal lambrosc!» Promettiamo. Porteremo un registratore e molte, molte cassette.

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