Il latte versato lungo le strade nei giorni scorsi riporta i riflettori su un problema che non è esclusivamente sardo, né tanto meno nuovo: il prezzo dei prodotti agricoli. Produzioni che devono sottostare alle classiche leggi di mercato della domanda e dell’offerta, ma che hanno il forte svantaggio di non potere essere variate in tempi rapidi. Sospendere la produzione di bulloni, pur con tutte le problematiche che questo comporta, può essere una decisione che si prende dalla sera alla mattina, mentre non è certo possibile interrompere la mungitura in un allevamento o la coltivazione di un arboreto. Produrre un litro di latte o di vino in più può comportare il crollo del prezzo di questi prodotti, così come la sua carenza, in quantitativi analoghi, determina un’impennata delle quotazioni. E questo non tanto per le quantità che generano le differenze di produzioni, peraltro difficili da prevedere perché legate anche all’andamento stagionale, quanto piuttosto per le speculazioni che si innescano da questi fenomeni. Speculazioni che molto spesso vanno ad esclusivo svantaggio del produttore ma che non vengono percepite dal consumatore, visto che al supermercato i prezzi di un prodotto non possono variare di percentuali a due cifre come invece molto spesso accade per le aziende agricole. Gesti estremi come quelli dei giorni scorsi, per quanto condannabili, possono contribuire a sensibilizzare i consumatori, che sono l’anello più importante di questa catena. Tutti gli agricoltori hanno il diritto di produrre e di trasformare i loro beni secondo regole semplici, chiare e condivise. Diventa indispensabile che ognuno presenti i suoi prodotti al consumatore senza falsi equivoci, rendendolo chiaramente distinguibile da altri rispetto ai quali potrà anche essere simile. Dovrà prevalere la volontà di non confondere e non quella di ingannare. Poi sarà il consumatore a premiare il prodotto con le proprie preferenze e molto probabilmente il mercato concederà spazio a tutti. E questo senza la necessità di voler far credere al consumatore che esiste la “crusca a foglia larga”, visto che la crusca è il sottoprodotto della macinatura delle cariossidi dei cereali e quindi sarebbe più corretto parlare di crusca di avena, di grano, di segale o di mais. Diversamente rischiamo di innescare la guerra dei marchi e dei brevetti dell’agroalimentare con nascita di mode costose e talvolta inutili. Mi riferisco a prodotti di “club” brevettati come le mele “Pink Lady” od il “Kamut”, che altro non è che una antica varietà di grano da sempre esistente ma che oggi, essendo stata creata ad arte una moda, riesce ad essere venduta a prezzo più alto. Siamo certi ne valga la pena?
COLTURE ALTERNATIVE
In un mercato bizzarro e difficile nel corso degli anni si sono sempre susseguiti casi, rari ed isolati, di ricerca di attività agricole alternative alle produzioni tipiche del territorio. Per quanto riguarda gli allevamenti per esempio negli anni ’70 si provò con i lombrichi, negli anni ‘80 con le lumache e negli anni ’90 con le rane. Praticamente tutto finito nel nulla. Diversa invece la situazione in arboricoltura quando in Italia, ed anche a Correggio, arrivò il Kiwi, la cui coltivazione non esplose per motivazioni sia agro-climatiche che di logistica, ma che in breve tempo portò l’Italia a diventare il primo paese produttore al mondo. Dopo i flop del noce e dei boschi di ciliegio, le attenzioni sono puntate in questi giorni su melograno, luppolo e bambù, ma di questo avremo modo di parlare ancora.