Il Carnevale è una festa antichissima, che trae origine dalle Dionisiache greche e dai Saturnali romani. Durante queste feste era sovvertito l’ordine sociale, si dava vita al “mondo alla rovescia” e ci si abbandonava a scherzi, burle, derisioni.
In quei giorni, chi sta in basso, il servo, il pezzente, il villano-bestia è libero di sghignazzare e ridicolizzare potenti e sapienti: si raggiunge così il culmine dell’inversione dell’ordine politico e sociale, si capovolge, ridicolizzandola ogni gerarchia prestabilita, si realizza la trasformazione d’ogni cosa nel suo contrario, s’instaura il mondo “alla rovescia”.(Camporesi)
Sull’origine del nome sono state fatte diverse ipotesi. La più accreditata Carnem Levare (togliere la carne) trae origine dall’obbligo di non consumare carne durante la Quaresima, che inizia il mercoledì delle Ceneri, esattamente dopo il Martedì grasso, ultimo giorno di Carnevale. Nel “Ramo d’oro”, James Frazer avanzò la tesi che il carnevale fosse un rituale volto a far crescere le messi. Molti studiosi ritengono che celebrasse la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera. Nella tradizione popolare emiliana venivano organizzate le “mascherate”: cortei questuanti, rappresentazioni scherzose e comiche nelle strade o nelle stalle. L’utilizzo della maschera ha origini antichissime e si ritiene che fosse utilizzata durante antichi riti o pratiche religiose per mettersi in comunicazione con l’aldilà, il mondo degli spiriti. In questo senso il mascheramento assume il significato di cambio di identità, di trasformazione, di rinnovamento; gli schiamazzi e la baldoria diventano una sorta di rito di purificazione. Sull’etimologia del termine ci sono diverse ipotesi. Secondo alcuni deriverebbe dal vocabolo masca, che dal linguaggio preindoeuropeo è traducibile con fuliggine o, in modo meno letterale, fantasma. Oppure dal latino medioevale per il quale significava strega. Interessante anche l’assonanza con la locuzione araba “mascara” o “mascarat” che significa scherzo o burla e, che più degli altri, esprime l’attuale funzione a cui la maschera è destinata. La maschera, celando l’identità, rendeva liberi e comunque comunicava alla comunità lo sdoppiamento tra realtà e rito, scherzo, gioco… rendendo accettabili e leciti comportamenti ed espressioni comiche e volgari.
La cultura “inferiore”, legata alla terra e al fisiologico, al corporale e al genitale, ridicolizzava la cultura del palazzo e della città, del potere regale e ecclesiale che guarda in alto, verso i vuoti e sterili e infecondi campi celesti. (Camporesi)
Il corteo era aperto da una “banda” con pifferi, tamburi e manset o strumenti musicali improvvisati come coperchi e pentolacce, che annunciavano l’arrivo delle maschere e girava di casa in casa raccogliendo dalle famiglie: rosoni, frittelle, tortellini fritti, uova, arance…
Banda, banda fai strada che sta arrivando la mascherata
sono io con mio fratello con la piuma sul cappello
il cappello di tre colori un saluto a lor signori.
Banda, banda fai strada che c’è il matto della scopa
la scopa di saggina che vuole fare una scopatina
specialmente sotto alle donne che hanno sempre delle vergogne
specialmente sotto a mia moglie dove ce n’è un cesto e un paniere.
Oh signorina dal cappello andate in casa a fare le frittelle
per questi poveri mascherini che hanno una fame da pellegrini
se non avete dello strutto dategli una merda per ognuno.
Banda, banda fa ed la strêda ch’è che ch’a vîn la mascarêda
a sun mè, cun me fradèl cun la piúma sul capèl
al capèl ed trî culór un salút a lor signór.
Banda, banda fa ed la strêda ch’a gh’è al mat da la granêda
la granêda ed sanguneina ch’la vól fêr na spasadeina
specialmeint sòta a ch’al dòn ch’a gh’è seimper di svergògn
specialmeint sòta me muiéra ch’a gh’ne na corga e na panéra.
Oh sugnereina dal capèl andê in ca a fêr al fertèl
per ‘sti pôver mascarein ch’i’an na fam da pelegrein
s’an gh’j mia dal destrút dègh na mêrda proun a tút..
I doni venivano richiesti dai mascher (persone mascherate) con filastrocche in rima baciata, che avevano il compito di presentare le caratteristiche peculiari della maschera, di divertire gli ascoltatori e deridere eventuali famiglie che non offrivano regali.
Contadini ho saputo che avete fatto del vino
se non me ne date una fiaschetta Dio vi mandi una saietta.
Cuntadeina j’ò savû ch’j fât dal vein
sa m’in dê mia na fiaschèta Dio ve manda na saièta
Ogni tanto il corteo si fermava sulle aie e alcuni mascher eseguivano, con l’accompagnamento musicale o con canzoni, balli scherzosi come il ballo dei gobbi e il ballo del morto. Le maschere erano normalmente realizzate con delle pezze bucate in corrispondenza degli occhi e della bocca, grezzamente dipinte col carbone o con altri coloranti naturali. Non di rado si mettevano in testa e sul viso indumenti intimi come mutande o canottiere oppure vecchi strumenti di lavoro bucherellati come secchi, cavagni o sporte che, trasformati in maschera, accrescevano l’ilarità. Come abiti si utilizzavano i vestiti vecchi, gli stracci, le pezze di stoffa, elaborati ed arricchiti con improbabili decorazioni come piume di gallina, piume di fagiano, nastri colorati, corde…
A gh’è che un vèc mendéch
cun la giúba e al capèl frét
cun la giúba seinsa b’toun
in più i strâs che i p’coun boun.
C’è qui un vecchio mendicante
con la giubba e il cappello fritto
con la giubba senza bottoni
sono più gli stracci che i pezzi buoni.
Per aumentare l’imprevedibilità e la giocosità venivano indossati “alla rovescia” o di “sghimbescio” o in parti del corpo diverse dalla normalità, dal consueto. A volte l’abito sanciva un rovesciamento dei ruoli, gli uomini diventavano donne, i bambini vecchi, i piccoli grandi. Altre volte si attuava una trasformazione-deformazione della figura con personaggi enormemente grassi, storpi, gobbi e ciechi.