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Gabriele Tesauri assessore: vorrei un fermento culturale diffuso

Caro Gabriele, nel numero di Primo Piano dell’ottobre 2022, in un articolo a tua firma, sottolineavi, da intellettuale impegnato, l’esigenza di ricostruire la cultura a Correggio. Mica bagatelle. A quasi un anno di distanza ti ritrovi con la responsabilità di guidare proprio l’assessorato competente. I casi della vita! Hai già qualche idea per cominciare tale opera?

«Eh sì, la vita spesso ci mette di fronte alle nostre stesse affermazioni. Credo anche che la Natura, pur nel suo ruolo di algida matrigna, lasci trasparire una sottile ironia nel progresso delle nostre fragili certezze. Questa nuova responsabilità mi offre un’opportunità senza dubbio preziosa per proporre una serie di azioni volte a rilanciare le attività culturali a Correggio, in perfetta sintonia con il programma che il nostro Sindaco ha presentato alla città.

Sono particolarmente felice di constatare che nella nuova Giunta c’è una profonda sensibilità e un forte spirito di collaborazione su queste importanti questioni. Nell’articolo a cui facevi riferimento, avevo cercato di individuare i segni più evidenti che ho potuto rilevare dalla mia posizione di operatore culturale esterno all’amministrazione: la carenza di spazi dedicati alle attività culturali, le sfide legate all’ambito giovanile e la necessità di concentrare attenzione sulle frazioni. Nei primi mesi di questo nuovo incarico, abbiamo avviato una fase di analisi approfondita di questi segnali, interagendo con associazioni locali, figure di spicco nel panorama culturale, dirigenti scolastici ed operatori sociali. Siamo convinti che per poter formulare una diagnosi accurata e definire un piano d’azione concreto per il territorio, sia essenziale esplorare a fondo le vere sfide e le risorse a nostra disposizione.

In sintesi, le nostre proposte e visioni sono molte, grazie alla diversità di esperienze e sensibilità presenti all’interno della Giunta, ma soprattutto c’è un accordo unanime sul metodo: è fondamentale instaurare un dialogo aperto e costruttivo con i cittadini e le istituzioni culturali, al fine di tradurre le idee in soluzioni concrete per il benessere di Correggio. Attraverso questo percorso di ascolto abbiamo iniziato a programmare un ricco calendario di iniziative già a partire da settembre».

 

Le tue prime impressioni? C’è vita nel borgo? Il suo patrimonio storico di memoria, di impegno civile non sta progressivamente annegando nel rito abitudinario, ovvero nell’indifferenza? 

«Nel nostro borgo la vitalità non manca affatto. Su questo punto, non ho mai avuto dubbi; la nostra città sfoggia una tradizione culturale di spessore, tanto negli istituti culturali quanto in quelli scolastici. Siamo ben lontani dall’essere quel deserto che talvolta viene temuto e dibattuto sui canali social locali. Vi sono anche numerose associazioni culturali di elevato calibro che impreziosiscono la vita cittadina con una ricca varietà di eventi, contribuendo alla crescita collettiva.

Rispetto alle criticità che avevo individuato, ho l’impressione che al momento la carenza di spazi sia un problema secondario. Il disagio giovanile, invece, rivela un quadro più sfaccettato e complesso rispetto alle premesse. Le frazioni, da parte loro, necessitano di cura ed ascolto. Mi soffermerò solamente sul motivo per cui ho cambiato idea in merito alla questione dei luoghi. Potrei dire che non è tanto un problema di spazio, ma di tempo. Ci sono intere generazioni che stanno “buttando via il loro tempo”. È un po’ brutale come affermazione, ma non voglio girare intorno al problema. Ritengo sia molto più urgente instaurare nuovamente un fermento culturale diffuso, garantendo alle nuove generazioni l’ascolto necessario per le loro proposte e promuovendo opportunità di dialogo e di interazione tra le varie associazioni. Se rimettiamo in modo queste dinamiche, allora riusciremo a individuare anche i luoghi idonei in cui ospitare le iniziative conseguenti».

 

Ma a quali luoghi pensi?

«Permettimi di accarezzare un piccolo sogno: immagino che, se i proprietari di spazi artigianali o industriali in disuso dovessero partecipare attivamente a questo virtuoso processo, uscendo dall’inerzia e mettendo a disposizione tali ambienti per la comunità anziché lasciarli decadere, ciò rappresenterebbe un trionfo di civiltà per l’intera collettività. Lo dimostra l’esempio luminoso della ex-caserma dei Carabinieri donata dai coniugi Bertani alla nostra città: in questo dono si vede la volontà di credere in un futuro migliore. È vero, ogni iniziativa comporta dei costi, ma ritengo che spetti alla nostra generazione almeno tentare. Che eredità vogliamo consegnare alle generazioni future? Solamente rovine?».

 

Lettura, teatro, arti figurative, cinema: lo sviluppo del digitale può essere l’occasione per una ricomposizione dei saperi o, come paventa Umberto Galimberti, la tecnica alla fine si autogovernerà e inaridirà i nostri sentimenti?

«L’irresistibile avanzata delle tecnologie digitali ha indubbiamente scolpito un nuovo paesaggio nella trama della società contemporanea, incidendo profondamente sulla nostra interazione con la cultura ed i diversi ambiti di conoscenza. Questo cambiamento non è privo di sfumature, presentando sia possibilità feconde che sfide da affrontare con attenzione.

Da un lato, l’era digitale ha democraticamente aperto le porte del sapere, rendendo accessibile una vasta gamma di contenuti culturali e artistici attraverso le piattaforme online e i social media.  Inoltre, il digitale ha offerto nuovi strumenti per archiviare e preservare documenti storici, contribuendo alla conservazione della memoria collettiva e agevolando la ricerca storica. D’altro canto, sorge un’ombra di riflessione riguardo al potenziale impatto negativo del digitale sulla nostra sfera emotiva e la profondità del nostro coinvolgimento culturale. L’abbondanza di informazioni e la frammentazione dell’attenzione possono insinuare una sorta di superficialità nell’approccio alla conoscenza.

Un punto cardine consiste nel raggiungere un compromesso delicato, abbracciando il digitale come uno strumento che arricchisca la nostra esperienza umana. La consapevolezza dell’importanza delle relazioni interpersonali, dell’empatia e del contatto autentico rimane essenziale».

 

Nel saggio Il lavoro culturale”, Luciano Bianciardi fa dire al protagonista che la cultura non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri ed evitare il male. Ciò ti sembra ancora possibile nel tempo dell’io, del faccio tutto da solo?«Certo, condivido. Non mi ha mai interessato la cultura esibita, fine a sé stessa, ma l’ho sempre intesa come strumento per risolvere i conflitti a qualsiasi livello, da quello personale fino alle relazioni tra le diverse comunità. Quindi ben vengano tutte quelle attività artistiche ed educative che ci portino ad approfondire la conoscenza di culture diverse e di altre sensibilità. Capire e soccorrere l’altro per me non solo è possibile ma necessario: la società dell’io è un ossimoro, un futuro sterile da evitare. Vorrei però fare una riflessione su quanto ancora sia fondamentale “capire noi stessi”, prima di capire gli altri. A questo dedicherei oggi il primo compito della cultura: darci gli strumenti per comprendere come funzioniamo in rapporto agli altri, quali sono le nostre debolezze e le nostre forze, quali sono gli schermi dietro i quali ci rifugiamo. In sostanza la cultura ha il compito di aprire il nostro sguardo su quanto siamo stati resi deboli e sperduti dall’esaltazione dell’individualismo. Attraverso proposte educative  che coniughino cultura ed arte, ognuno di noi deve scegliere i percorsi interiori che portino alla costruzione di una comunità dove l’equilibrio tra le differenze sia fondato sulla profonda consapevolezza che non possiamo fare a meno gli uni degli altri, un equilibrio fondato sul rispetto per il lavoro, dal più umile al più complesso, un equilibrio per sua natura dinamico, perché la comunità umana è sempre in evoluzione e perché ad ogni essere umano che nasce sia data la possibilità di percorrere la vita con pari diritti».

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