L’Albergo Posta aveva una sola stella: la zita in cucina

Edificato a fine settecento, l’Albergo Posta sorgeva in Piazza Grande, poi denominata Piazza delle Erbe per le sue funzioni prevalentemente legate al mercato degli ortaggi, infine intitolata, nel 1882, Piazza Garibaldi per ricordare la breve sosta compiuta, il 27 settembre 1859, nell’albergo dal Generale patriota. Costruito per ospitare i viaggiatori che si fermavano o transitavano con linee postali a cavallo, era un’Osteria Camerale gestita per conto del Duca di Modena fino all’Unità d’Italia.

Sorse nella proprietà della Confraternita di San Sebastiano, di fianco all’omonima chiesa. Non è certo se il progetto fosse dell’architetto Francesco Cipriano Forti, o del parente Francesco Forti il quale, comunque, ne ristrutturò la facciata dopo il terremoto del 1830. L’elegante frontale che guardava la Piazza presentava un cornicione decorato, tre ordini di finestre e un alto zoccolo bugnato: al centro si apriva un portone ad arco diamantato con sovrastante terrazzo, che conduceva ad un ampio cortile interno adibito al deposito delle carrozze e al cambio-stallaggio dei cavalli. Sotto al terrazzo era fissata l’insegna dell’albergo: un’aquila ad ali spiegate che teneva tra le zampe un cartiglio col nome Albergo Posta”. L’arredo interno era decoroso e ben curato, secondo la moda dell’epoca; i soffitti delle camere da letto erano decorati a grottesche.

Il vero cuore dell’albergo era la cucina: rimane nella memoria del borgo il periodo intercorso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio degli anni cinquanta del Novecento, quando gli ultimi esercenti, Coriolano Montanari e la sorella Zita, raggiunsero i limiti d’età e l’Osteria chiuse i battenti. La sintonia ospitale e culinaria dei due fratelli richiamava palati esigenti che difficilmente dimenticavano i piatti della Zita, detta “regina dei fornelli”. La sua sfoglia, tirata sottile e senza strappi, era la base del segreto delle sue prelibate minestre di maltagliati, quadretti, tagliatelle… Le tagliatelle della Zita col ragù di carne che bolliva ore e ore, i cappelletti (solo in brodo di cappone o di gallina vecchia), i tortelli verdi di bietole e ricotta con la pataia (sfoglia che avvolgeva il tortello) e la zuppa spagnola (dadini di pane fritto nel burro in brodo speciale) erano tra le specialità dei primi che non si potevano scordare. Per ingannare l’attesa tra il primo e il secondo, Coriolano offriva i tramessi, cioè una cotolettina d’agnello e una specie di gnocco fritto alla salvia. Per i secondi piatti non c’era scelta: i lessi arrivavano fumanti, e in speciale spiccavano la picaglia (tasca di carne di vitello con ripieno alle erbette, uova e formaggio), lo zampetto e il codino di maiale. E non mancava come contorno la salsa verde di prezzemolo, e come condimento l’aceto balsamico e il crèn (radice piccantissima grattugiata e condita con sale e aceto forte). Per finire ci si addolciva la bocca col busilàn tocciato nel vino di Malvasia, o con la zuppa inglese. Da non dimenticare la cantina, il regno di Coriolano, dove, fra i vari vini ben disposti sulle assi alle pareti a far compagnia a salami, coppe e prosciutti impiccati a stagionare alle travi del soffitto, primeggiava il Lambrusco. Un Lambrusco color rubino scuro, spuma rosa, gusto frizzante e aroma fruttato che Coriolano serviva all’ospite, religiosamente.

Era il 1959 quando fu deciso che questo monumento storico avesse esaurito il suo compito e dovesse cedere il posto al rinnovamento edilizio simbolo del progresso, e così si diede avvio alla demolizione che, purtroppo, lasciò sul campo due muratori deceduti durante i lavori.

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