A che punto è la notte…

Chiediamo Lumi sulla crisi economica a Giulio Tagliavini, docente all’Università di Parma

Giulio Tagliavini vive a Correggio. Docente della Scuola di Direzione Aziendale della Bocconi e poi presso l’Università degli studi di Lecce, è attualmente professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università degli Studi di Parma, dove è stato direttore del Dipartimento di Economia. È membro del CDA di Banca Popolare Etica; in precedenza è stato nel CDA di Cariparma Spa. Ha pubblicato articoli e saggi sulle questioni del finanziamento della piccola e media impresa, del risparmio delle famiglie e del microcredito.

 

Fuori c’è il caldo più caldo di tutti i secoli, ma nello studio acquattato nel giardino si respira. 

Professor Tagliavini, mentre altri paesi ottengono buoni risultati, l’economia italiana continua ad essere in difficoltà: scomparsa di migliaia di piccole e medie imprese e di interi settori produttivi, come l’edilizia; livello di disoccupazione schizzato oltre il 12%; sviluppo del reddito nullo o negativo; crescita delle diseguaglianze. Siamo ancora nel mezzo della notte?
«È facile descrivere i sintomi di una crisi economica, meno facile trovarne le cause, e anche l’aver individuato le cause non equivale a trovare il modo di gestirla poiché ci sono sempre cause al di fuori del nostro controllo. 

Non è da ora, ma da molti decenni che l’Italia ha smesso di crescere. Sul modo di affrontare la crisi italiana si sono confrontate due linee di pensiero economico assai diverse. 

Dal governo Monti in poi, la causa dei nostri problemi è stata identificata nello sbilancio dei conti pubblici. 

L’eccesso di debito pubblico comporta un rischio sui titoli italiani e quindi tassi di interesse da pagare troppo alti che peggiorano la competitività delle imprese italiane all’estero. Secondo questa linea, generalmente detta di “austerity”, occorre intervenire mediante nuove tasse e tagli alla spesa pubblica. 

Purtroppo i risultati non sono stati quelli sperati: le imprese hanno continuato a chiudere, il debito pubblico ha continuato a crescere e la disoccupazione è peggiorata. Per alcuni economisti questi dati sono però prematuri per concludere che fosse errata la diagnosi e quindi la cura. 

Questi economisti elencano a uno a uno i problemi che deprimono la competitività delle imprese italiane rispetto a quelle degli altri paesi: tempi della giustizia civile, bassa flessibilità e produttività del lavoro, alta tassazione per l’incidenza dell’evasione fiscale, alta spesa pubblica non funzionale alla competitività economica. Le nostre deficienze devono essere risolte a prescindere dal modello di intervento. 

È un punto di vista sostenuto anche dal Fondo Monetario Internazionale, altrimenti ci vorranno vent’anni per recuperare l’occupazione perduta dall’Italia». 

È proprio su questo che sta operando il governo Renzi, determinato a realizzare il suo straordinario programma di riforme senza fare troppe concessioni. Ma cosa di diverso si poteva fare?
«Per altri economisti i risultati sono già sufficienti per concludere che la cura è sbagliata e propongono un protocollo di intervento diverso. 

Un paese si mantiene in equilibrio solo se le esportazioni sono ragionevolmente in equilibrio rispetto alle importazioni. 

Il Governo Monti, e quelli successivi, hanno imposto nuove tasse sapendo di far cadere la domanda interna e, in una prima fase, l’occupazione. 

Letto in questo modo, l’obiettivo del Governo Monti era mettere prioritariamente in sicurezza la solidità degli operatori finanziari e di quelli internazionali che avevano fatto prestiti all’economia italiana, compreso i risparmi in CCT delle nostre famiglie. 

II fatto è che si sono avuti effetti negativi molto più forti di quelli che pure si ipotizzavano. Se non fossimo stati nell’Euro avremmo potuto recuperare competitività attraverso la svalutazione della moneta italiana. 

Se la nostra moneta si svalutasse del 20%, questo produrrebbe un margine competitivo del 20% per ogni esportazione. Potremmo spendere tale 20% offrendo condizioni migliori ai compratori esterni e/o autofinanziare le nostre imprese e/o rilanciare i consumi delle famiglie. 

È come il “time out” del basket. Serve per resettare il gioco, rinunciando ad una parte del nostro benessere per rilanciare. Lo hanno ripetutamente fatto molti paesi dopo l’esaurimento del “miracolo economico”».

Ma noi dobbiamo stare nell’Euro perché sui mercati globalizzati non potremmo sopravvivere in autarchia. Oltre al fatto che proprio le ripetute svalutazioni hanno a lungo nascosto i nostri insostenibili difetti. La vicenda Grecia ha poi dimostrato la velleità delle ricette indolori.

«Certo. Ma resta il fatto che se un paese si preclude la possibilità di svalutare la moneta, di fronte a una crisi di competitività ha come unica alternativa quella di svalutare il lavoro. 

E abbiamo fatto questo. L’alternativa vera sarebbe dunque tutta interna alla politica dell’area-Euro: svalutare la moneta comune e impedire che la Germania continui ad accumulare avanzi sproporzionati del rapporto esportazioni-importazioni, che per gli altri paesi è destabilizzante quanto un disavanzo nel proprio. 

Quindi si è difeso il valore dei risparmi finanziari ma l’economia italiana resta esposta a grandi rischi se dovesse allentarsi la manovra della BCE o se da una qualche parte scoppiasse una nuova bolla finanziaria come quella che ha innescato la crisi». 

Mi sta dicendo che saremo ancora nel pieno della notte finchè non si realizzerà una maggiore integrazione politica dell’area-Euro?
«Alcuni primi dati testimoniano che forse la tendenza dell’economia italiana ha virato verso il meglio. Sono dati per il momento incerti, sia pure positivi. Una causa è la ripresa delle esportazioni sostenuta da una certa svalutazione dell’Euro rispetto al dollaro. 

Però mentre già da tempo le imprese italiane che esportano sono in sviluppo, le medie imprese e quelle artigiane che lavorano per il mercato interno rimangono in fortissima difficoltà. Ad esempio la riduzione delle tasse potrebbe tradursi soprattutto in maggiore importazione di merci estere, come successe coi governi Berlusconi».

Quindi riassorbire la disoccupazione sarà complicato.
«Sì, perché il livello diciamo “intermedio” del lavoro tende a scomparire per la chiusura delle imprese locali e artigianali ma anche in ragione dello sviluppo della tecnologia. Dopo aver falcidiato i lavori burocratici e di pura intermediazione, la prossima ondata di innovazione tecnologica metterà in difficoltà il lavoro intellettuale. 

Per questo l’occupazione si mantiene solida, e potrà crescere, al livello più basso, ovvero di quelle mansioni ripetitive che non ottengono più l’attenzione dei giovani italiani e sono spesso delegate ad immigrati. 

E poi crescerà la richiesta di profili di elevata qualità, misurata su processi di formazione specialistica e di carattere internazionale, ma non si sa in quale misura».

E chi è stato costretto ad emigrare per lavoro, come diversi giovani correggesi, potrà tornare?
«Un dato presentato recentemente stima in 500.000 gli italiani che la crisi ha spinto all’estero, cioè più di quanti stranieri sono venuti in Italia.
Tale dato ha alcuni aspetti positivi, ma tanti profili negativi. Le dimensioni del fenomeno sono impressionanti. Grosso modo i nati in Italia in un anno sono proprio circa 500 mila. È come se l’Italia avesse spostato all’estero un’intera annata. Anche per questo ricominciare a crescere è un imperativo, oltre che economico, morale».

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